«Guida per un primo approccio alla lettura delle poesie di Marco», l’incipit o titolo della prefazione che Elio Pagliarani volle scrivere per Il mondo all’aperto, primo libro di Caporali. Incontrammo anche noi un poeta vigoroso, non privo di spigoli eppure semplice («fugace mi ostento a chiamarmi. / Mi trovo chinato a una goccia / assaggio le mie evaporate forme»). Nel corso di più di trent’anni vie si sono aperte, a più finestre chi scrive si affaccia con Il borgo dell’accoglienza. Ora, «quando più luminosa è ogni cosa / in quiete l’inquietudine si muta», una «quieta confidenza» ci soccorre. E alberi maestri, alberi badanti, terre sommerse o riemerse dove parlano pietre; infine un borgo, un bosco interiore non meno vero di quello reale. Una doppia luce avvolge la poesia di Marco: la prima interamente nostra, azzurra; l’altra molto a nord, attardata sul filo dell’orizzonte.
Due cieli si urtano al manifestarsi della forma, una sprezzatura che mai scorda la terra. Ecco una casa ordinata, i cui oggetti «più di qualsiasi parola rivelano»; eppoi i resti dell’improvvisata dimora dove il «vecchio ragazzo» Zeichen trovava la grazia di accogliere gli amici (le radici di un suo albero minacciate dal «muro dei vicini»). Perché di noi «non restino / solo rovine» ancora un poeta, Bordini; e il canto di Billie Holiday un sincopato urlo. La voce, le parole. Quelle di un poeta, “arrischianti”. Marco Caporali conferma qui il suo accento, più sottili si fanno gli accordi.