Domina un senso di derelizione e di resa in questi versi di Alessandro Ricci o, se si vuole, di risentito distacco: una rastremata coscienza del niente che tutto riduce, pure in certe persistenti turbolenze di storia personale, a una slontanante spettralità...
Che passi in rassegna piante e oggetti della terrazza familiare, forme evanescenti o già svanite dalla memoria, o che sogni la ciurma furiosa e disfatta di una nave fantasma, nella cronaca dei giorni come nell’allegoria, la poesia di Ricci è affascinata dalla fine. Sarà anche per questo che il suo tempo è il passato: il presente è vissuto, e visto, nel suo istantaneo farsi passato – lasciato passare –, mentre il passato più remoto può divenire il suo presente, suscitazione o maschera, evocazione o perdita di sé.
Una residua superstizione della vita – riversata in incontri ironici, eroiche scorribande per Roma o nella lunga marcia memoriale verso Garessio «sua patria» – porta sempre con sé un’avversaria ombra di mortificazione, che si traduce in piccoli assaggi, o prove di morte: la propria, quotidiana e futura, e le altrui al passato, patite o spiate con vesti di scena. Morti segnate da pallori e cruori: il sangue che rifluisce dal viso di Cavalcanti sbiancandolo, o fluisce dalle ferite di Giuliano l’Apostata, tingendo di vermiglio la sua ultima sera –, le morti per sfinimento di Lucrezio e di Leopardi... Sono morti fraterne, rivissute da sosia, ovvero le morti parallele dello scrivente...
«Capita allo scrivente di sognare precipitose discese del tempo, alla fine arrestandosi in un giorno solo, antico o antichissimo» annota in margine a una poesia; e da quel giorno unico, antico o antichissimo, in cui è capace di precipitare la sua storia o di specchiarla in altri destini, fa arrivare la sua voce, una eloquenza elusiva e diretta insieme, spesso brusca, spesa per disdire. Questa voce che si insinua, affabula, interroga, inquisisce, con delicatezza e acribia, restando al fondo refrattaria, distante, e dietro disdette e disperanze lascia indovinare ferite di desideri impediti, ci cattura nel suo controsenso insolubile: lo spaesamento adolescenziale e il millenario disinganno.
da I cavalli del nemico
Le condivise bellezze
I solissimi occhi dell’unica
Afrodite celeste che proprio te
(proprio te?) un tempo così breve
ritenesti guardassero per
infinitamente parlarti, i ventri bui
di tutte, tutte le altre, veneri forse
non meno desiderate, comunque e
indecentemente protese per ogni altro
e per nulla, proprio nulla
ridirti poi, quell’Una e queste
un mucchio di false
o nomadi promesse, loro esclusivi
ennesimi esatti
sequestri e dimenticanze
non oltre lo sfogo e
il compimento dell’atto, cui forse
ti credesti complice almeno un po’
[...]
PER I CAVALLI DEL NEMICO
di Francesco Dalessandro
da «Capoverso», 11, gennaio-giugno 2006
[...] La peculiarità della poesia di Alessandro Ricci, ha scritto Fabio Ciriachi («l’Unità», 14/7/2004), «non è nello sviluppo per crescita ma nell’accumulo, che in termini creativi corrisponde alla difficile arte della variazione». È vero. «Ogni anima bassa / come quella che ho scrive non una, / ma due al massimo / cose buone, poi le ripete / male e in fine / la smette, senza avere / vissuto mai», leggiamo ne I titoli degli altri. Pochi temi, gli stessi della grande poesia di sempre, ripetuti e variati. [...]
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