Indirizzate a vivi e a morti, fervide e distaccate, amorose e mortali, le lettere di Jude Stéfan gridano l’orrore di un’età mediocre e malata, opponendo un soffocato e stoico porsi in disparte – la vita nascosta, già tombale, solo smentita dal fervore edificatorio dell’opera, questo a sua volta irriso dalla coscienza dell’ineluttabile nulla.
Le sorelle, Cristo, Rimbaud, Sollers, i colleghi poeti, sono tra i destinatari di questi messaggi inviati da un ogni-tempo, o non-tempo, e da un luogo infero... «Le scrivo di mezzo ai secoli, le scrivo da sotto terra...», così a Sollers – e se i destinatari possono essere d’occasione, d’occasione non sono però i temi. Assoluti, ossessivi, splendidamente indifferenti alle mode letterarie, i temi di Stéfan sono il sesso e la morte: essi grandeggiano nella sua poesia, insieme epigrafica e concitata, barocca, come nella prosa dei racconti, di fattura più classica, o delle lettere, che qui si pubblicano, più vicine per tono e stile alle poesie – quasi dei poemetti in prosa. Ma non temi, obietterebbe l’autore a ragione: «Io non utilizzo affatto dei “temi”, morte, sesso, violenza, disperazione – naturalmente lei omette il piacere e l’ozio, fiori e fanciulle – sono l’esistenza stessa...», come dichiara nella lettera a un editore.
E l’esistenza è trattata da Stéfan con una scrittura chirurgica, incisoria... Anche se solo impercettibilmente, egli non fa che alterare, raschiare, forma e senso correnti, e reinventare al caso, con un gusto latino e lapidario per la contrazione e un amore dispotico dell’improprietà, all’insegna paradossale, tuttavia, del mot juste.
A tali discordanti istanze risponde bene lo studiato disordine dello stile epistolare, che mischia preziosismi e brutalità, alternando il modo affastellante, frammentario con lo slancio ispirato che ricade in un unico getto senza pause – la passione interrogante della lettera a Gertrude –, per dire stoicamente il vuoto e il nulla e insieme i precari conforti della carne.
da Lettere tombali
Alle sorelle
[...] Vi scrivo da un paese d’inferno, rannicchiato sotto la neve che qualche bambino si ostina ancora a trovare bella di biancore. Io so che si trattava un tempo del paradiso, che adesso siamo relegati dall’età come in una sezione separata di quaggiù, prigionieri familiari che non cercano più di comunicare. Sfiorita la giovinezza, morta la madre, non ci furono più notizie da darsi, poiché più niente di nuovo poteva mai avvenire. Ci fu una volta la vita – e il rimpianto non è affatto costituito dalla morte, ma da questo passaggio irrevocabile dei gridi, delle corse, delle confessioni che non hanno il tempo di fermarsi –, non resta che un’attesa vana, un camminare a ritroso con gli occhi fissi, poi intermittenti, poi richiusi su un tempo: il giardino di un tempo, il suo viale dove saltellavano i pulcini per il vostro piacere mattutino…
Sì, i vostri leggeri cappelli di paglia, i vostri vasi ricolmi di rose tea, il vostro corpo di sorgente e quelle candele che vi profilavano a sera, ogni volta che ci penso, ogni volta che scrivo il vostro nome, Eva come una donna primogenita, Elena come colei che fu amata anche dai vecchi, è con la vergogna di tradire il vostro silenzio, il pudore del vostro ignoto. [...]
(Traduzione di Gianfranco Palmery)
FINGERE PER DIRE IL VERO
di Sauro Albisani
da «Pagine»
[...] Se tali vogliamo considerarle, le Lettere tombali sono lettere che smascherano provocatoriamente il paradosso della corrispondenza, semplicemente questo: che non può esserci corrispondenza, nel senso che non ci corrispondiamo, che il carteggio corre sempre fra mittenti mentitori e destinatari contumaci. Come leggere allora queste pagine? Lettere che non arriveranno; lettere che è bene che non arrivino; lettere su cui è stata messa, una volta per sempre, una pietra sopra. Una pietra tombale. [...]
LETTERE TOMBALI
di Marco Vitale
da «L’Indice»
[...] Eros e morte sono i temi che hanno caratterizzato fin dall’esordio negli anni sessanta la produzione di questo importante poeta francese, nato a Pont-Audemer nel 1930, da noi ammirato e introdotto da Sergio Solmi che ne curò per primo una raccolta (Guanda, 1979). Una doppia tonalità che si evince fin dalla scelta dello pseudonimo, posto sotto il duplice viatico di Thomas Hardy, quanto al prenome Jude (l’oscuro), e di Joyce; ma, è lo stesso autore a svelarcelo, «nell’antico inglese steorfan vuol dire morire / e se levo via l’or / resta la mia vita incolore».[...]
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