A cura di Francesco Dalessandro, con un saggio di Michele Ortore
Nella sera che inclina: una parte di viaggio con Camillo Fonte
Da bambino mi piacevano moltissimo le carte lenticolari: oggi conosco il loro nome tecnico, ma diversi anni fa mi bastava studiare, ruotando lentamente il polso, in quale esatto punto e inclinazione la carta che mostrava ai miei occhi una certa immagine (un supereroe) cominciava a mostrarne un’altra (la vera identità sotto la maschera del supereroe) animandosi. Sfogliando questo libro, potreste provare una sensazione e uno stupore simili: L’isola è una riscrittura omerica, operazione colta e puntuale che solo una cultura mai sfacciata e mai artificiosamente gonfiata come quella di Camillo Fonte poteva attuare; eppure, in ogni periplo dell’isola, anche quando le corrispondenze con l’Odissea sono precise e segnalate dalle note dell’autore stesso, il lettore vedrà materializzarsi, ruotando appena l’inclinazione della sua lettura, le ferite di un poeta aggrappato alla sua vita, ai suoi amori, e per nulla in fuga nei campi elisi dell’antichità e della mitologia.
Chi scrive è nato esattamente dieci giorni dopo il suicidio di Fonte. Anche per questo, forse, ho voluto cominciare questa breve nota con un ricordo dell’infanzia. Tentando di calarci subito nel nucleo infuocato di quest’Isola, infatti, ho la sensazione che in questo poemetto, così pieno di voci anziane, ricordi e rimpianti, l’infanzia sia presente molto più di quanto appaia esplicitamente. Perché è lo statuto e la consistenza stessa della poesia di Fonte ad affondare le radici nel rito più ancestrale e autentico: raccontarsi. Solo nel gesto antichissimo del racconto, quello attraverso cui il bambino impara ad affrontare l’abisso del sonno o a costruirsi la prima immagine di sé attraverso le parole trasmesse ad altri, i dubbi su di sé possono comporsi in un equilibrio che non richiede alcuno scioglimento, ma illumina comunque di senso una strada altrimenti buia. Ecco Ulisse con i Feaci: «Si dipana / finché hai fiato la voce: / vanità del narrarti o sofferta appartenenza / a te stesso? Ritrovi / una smarrita rotta» (Interno con figure). In questo testo i virgolettati delle due strofe centrali, apostrofi ad Ulisse, sono abbracciati dalla prima e dall’ultima strofa (da cui ho citato), che appaiono invece come un monologo interiore dell’eroe. In questa pendolarità fra dialogo e monologo è difficile non intravedere, conoscendo la biografia del poeta, la sublimazione della sua esperienza d’amore, che scorre in tante delle parole pronunciate dalle voci dei personaggi mitici – a volte scontornate e non ben identificabili – nella riscrittura («[…] Mi sgomenta / come canto di passeri indolenti / il superstite amore / che ancora a te mi lega», Una passeggiata serale); ed è un tratto d’indubbia originalità che queste sublimazioni si riverberino, senza distinzioni, non solo nelle parole maschili, ma anche e forse soprattutto in quelle femminili.
Rispetto all’Odissea, nella versione di Fonte è rimosso l’elemento violento, gerarchico: la lotta per il potere s’intuisce solo, labilmente, dai riferimenti alla furbizia e alla capacità di cambiare volto di Ulisse. Alla legge del dominio si sovrappone un etereo e diffuso sentimento negativo, leopardiana coscienza di sorte maligna («quale inganno nuovissimo ha filato / la malasorte», Veduta sul mare): ma ciò si dà sempre all’interno di un grande controllo formale ed etico, quasi una sprezzatura emotiva, per cui le pulsioni più intense passano attraverso l’alambicco della scrittura e ne escono distillate (con ovvie eccezioni più cariche di tensione, come nel caso di questa costruzione anaforica: «[…] Al fervore / delle strade alla nube / rosa e trepida al vento che la muove / a te così vicina», Una passeggiata serale). Mescolandosi alle diverse figure della sua Isola, l’autore finisce per somigliare al suo Ulisse, che tesse «maschere ad uso d’estranei», barattando con loro i suoi ricordi. Ma attenzione: non si tratta, minimamente, di un mero gioco letterario. Lo dimostrano i tanti versi che oggi suonano come anticipo della morte del poeta: «[…] Attendi, / chino al timone inutile, che un gorgo / subito aperto e chiuso ti dia pace: / forse è questo che speri. / Benché avvezzo / alle insidie, ti sai / troppo a lungo provato…» (Veduta sul mare). Sebbene Fonte riconosca, pochi versi dopo, quanto si tratti di un dolore «non estraneo, prezioso».
In fondo, non è arduo accorgersi di come tutte queste componenti si tengano assieme: la scrittura per Fonte è diaframma necessario per accostarsi alle lacerazioni del suo mondo emotivo con maggior distacco, nel tentativo di elaborarle attraverso il filtro dell’alterità, sia di tempo (la scelta del mito antico) sia di voce (le parole dei personaggi del poema); lo dice l’autore stesso, ovviamente sempre all’interno del suo gioco di specchi, con voce altrui («Altro motivo è viversi allo specchio / (per infedeli immagini / variabili: un intruso / che s’esplora)», Castello in riva a un lago). Così ci troviamo a leggere una poesia che fa viaggiare nel tempo, o meglio, fuori dal tempo, perché «né vecchio / né nuovo il tuo dolore / è abbaglio senza scie» (Il sindaco del villaggio): ciò è vero anche a livello stilistico, perché in questi testi troviamo sintagmi oggi impensabili (di là dalla parodia o dal lirismo più epigonale) come tremolante primalba, felice eri (con posposizione della copula), e un gusto marcato per l’evocazione sfuggente, che lascia traccia nella diffusissima assenza dell’articolo; lo stilema è ancora più evidente quando è in incipit (solo un paio d’esempi, visto che si potrebbe quasi andare ad apertura di libro: «Pianeta di penombre / cui nessuna stagione si concede», Il sindaco del villaggio; «Meridiana attenzione è tenerezza», Paesaggio meridiano).
Sono molti i tratti classicistici, come un certo uso della litote («tra i fumi del vino che la dea / non lesinò alla nostra sete», Il ritorno), alcune tmesi molto pronunciate («Altro se ti sorprende è l’assolata / calma del lago», Paesaggio meridiano), le epifrasi («Incerta la memoria e dolorosa», ibidem) e altre disposizioni di frase marcate (ad esempio l’anticipazione dell’avverbio: «Come / non so dirti»), o il ricorso a singoli preziosismi lessicali: scaltrire «Sogni un volto i cui tratti / l’ansia scaltrì» (Veduta sul mare) o l’uso non pronominale di stupire: «[…] io, a stupire / di un’altra partenza» (Nuove partenze). Anche sul piano metrico prevale, pur all’interno del verso libero, la tradizione: spesseggiano i versi dispari, in particolare settenari ed endecasillabi, e anche i metri più lunghi sono spesso scomponibili in due settenari, rivelandosi alessandrini. Tra gli echi – ben dissimulati – della grande poesia novecentesca, segnalo l’incipit di Il ritorno («Tu la vedrai la casa da lontano / coperta di nuvole nell’ora tarda / del pomeriggio dietro il promontorio»), che è facile accostare a quello della Casa dei doganieri di Montale, paralleli non solo nel lessico e nella grammatica, ma anche nella tematica dell’attesa: «Tu non ricordi la casa dei doganieri / sul rialzo a strapiombo sulla scogliera: / desolata t'attende dalla sera».
Gli esiti formali sono molto meno apollinei, ma più che degni, nelle poesie d’amore, autobiografiche e mai assemblate in una raccolta organica da parte dell’autore, che non le pubblicò mai: mi colpisce in particolare il terzo testo della sequenza Braci, in cui la descrizione dell’amplesso è tanto levigata e tagliente al tempo stesso che sembra fatta di ossidiana, lava su cui è stata gettata nonostante tutto l’acqua gelida dello stile; basti pensare, in una partitura di versi così ben studiata, al contrasto tra il dantesco ci affina del quarto verso («Poi s’ascose nel foco che li affina», da Purg. XXVI, pericope ripresa, com’è noto, anche da Eliot) e l’ostinazione geometrica del predicato circoscrive all’inizio della strofe successiva.
E chissà quante tappe del troppo breve viaggio di Camillo Fonte abbiamo perso, bruciate nei «periodici fuochi di san Giovanni» dettati dall’insoddisfazione e dal pudore cui sottoponeva i suoi testi, riuscendo nella volontà autocensoria che fallì a Virgilio. Le sue poesie d’amore sono dodici. Dodici poesie per dodici anni di ondivaga relazione: scampate ai fuochi non per maggior dignità estetica, ma perché servissero – come leggiamo nelle righe lasciate dall’autore – appena come traccia del passaggio di Fonte nella vita dell’amata. Il confronto, imbarazzante, con certe altre produzioni poetiche ipertrofiche e muy social non ha bisogno di ulteriore commento. È quanto accade, del resto, quando ci si ostina a credere che l’arte della scrittura sia una lotta, a volte gratificante, ma spesso drammatica e senza sconti, per attingere al proprio nucleo interiore: «io combatto / col vuoto di una stenta / metafora, per dirtelo» (Nebulosa).
Michele Ortore