Jean de Sponde (Mauléon 1557 – Bordeaux 1595), dotto umanista, calvinista, lontano dal clima della Pléiade, i suoi riferimenti non sono Du Bellay o Ronsard, piuttosto Marot e Bèze, traduttori, su commissione di Calvino, dei Salmi davidici. Occasione per lo stesso Sponde di quelle Meditations sur les Pseaumes, così finemente intrecciate per temi e tono con i suoi versi. Ma l’ortodossia del poeta è alquanto accidentata: a trentasei anni, seguendo il suo re, Enrico IV, abiura la Chiesa di Ginevra e torna a quella di Roma. Per lui il mondo fu davvero «campo del turbine», e solo nella sua opera, esigua ma di grande intensità e sofferta eleganza, si compone un dissidio che fu storico e esistenziale insieme.
La poesia di Sponde, penitenziale e sensuale, testimonia infatti un drammatico dualismo dell’io, diviso, dilaniato (tra spirito e carne, morte e vita, ecc.), e insieme la sua tragica e comica insussistenza, con un linguaggio sontuoso e un passo aereo, lieve, sempre a qualche metro dalla terra.
I primi cinque sonetti appartengono alla raccolta postuma Amours, gli altri a Stances de la Mort, Sonnets sur le mesme subject.
Traduzione di Gianfranco Palmery
In copertina un disegno di Bruno Ceccobelli
da Versi d’amore e di morte
Tu che raggi, mio Sole, dai tuoi occhi
nei miei, e per troppa luce luce gli levi,
io non vedo che te e così fiera
è l’anima che ama solo nei cieli.
Ogni altro amore un inferno mi pare
furioso, di morte e orrore, e mi ritraggo
liberamente via libera lasciando
a chi volendo il meglio fa più male.
Spesso il piacere è l’amo dell’amore,
ma in più io sento una più viva forza
che mi farebbe comunque amare quel Sole:
e questa forza è in te, la cui possente
bellezza senza pari, benché assente,
ha ucciso questo amante senza pari.