Se c’era un modo nuovo e insieme ovvio di tradurre un poeta latino, e un poeta come Catullo in specie, questo lo ha certo trovato Ottavio Sforza. Con le sue versioni dei carmi catulliani egli sostiene e prova che la lingua più sintetica dopo il latino è il romanesco, che del resto, aggiunge provocatorio, dal latino direttamente deriva.
Né il gusto del controsenso è estraneo a questa impresa. Avvicinatosi a Catullo non ignaro del giudizio sferzante di Baudelaire sul poeta romano e la sua «banda di elegiaci brutali e epidermici», Sforza riconosce di aver agito da infiltrato: «Sono entrato nella banda – confessa serio e sornione il traduttore – e ho stabilito intimità con il capo per tendergli la mia rete letterale; ho forzato la sua brutalità, l’ho portato allo scoperto e, come succede a tutti gli infiltrati, mi sono a mia volta scoperto, scoprendo qualcosa su di me».
Azzardo o divertimento, ecco un poeta di Roma antica restituito alla moderna lingua di Roma, con la sua smaccata muscolatura retorica e la sua destrezza, il suo aplomb e gli scatti micidiali, senza nulla togliergli dell’eleganza metrica e melica originaria.
In copertina un disegno di Nancy Watkins
da Vivemo, Lesbia mia, famo l’amore
Me pare che dev’esse paro a un dio
e puro più de ’n dio, si se pò dì,
quello che sta de fronte a te e ’gni tanto
te guarda e sente
che ridi dorce, e io ce perdo i senzi
pover’a me, ch’abbasta che te vedo,
Lesbia, e nun m’arimane manco ’n filo
de voce in bocca,
ma la lingua s’addorme, come ’n foco
me córe dapertutto, un gran ronzio
ne le recchie arisona, e m’aricopre
l’occhi la notte.