L’editto finale è un libro felicemente diseguale. Grande mobilità e libertà del verso assecondate da un ritmo che ai toni distesi, “argomentativi”, fa seguire sussulti sonori e di senso che lacerano l’ordito inducendo nel lettore spaesamento e disagio: vitalissimi.
Dissipazione (di sé e della parola poetica) e ricerca di una misura; spleen e poi soprassalti di nera allegrezza; amore e disamore; quiete, per quanto instabile, e disperazione; iperbolica costruzione dell’io e sua improvvisa deflagrazione in detriti e frammenti che raggiungono l’altro con una violenza perforante accomunandolo in un destino di perdita.
Il sentimento, come in tutta la poesia di Alessandro Ricci, è forse rivolto a un altrove, a un’imminenza dove la vigilia di un evento è, nella riesumazione memoriale delle disfatte, evento già compiuto; la prossimità del viaggio è viaggio in atto; l’inclinazione alla morte è mortale consumazione. Dove il discrimine tra ideazione e azione sembra sfumare, la loro contiguità si risolve in una disincantata cognizione del vivere.
A cura di Francesco Dalessandro
Prefazione di Domenico Vuoto
Disegno in copertina di Elvio Chiricozzi
da L'editto finale
Si costruiscono zattere anche
per non salvarsi, per non
raggiungere approdi ma
perderli, e lo si fa
intenti, odiandosi quasi
serenamente, sapendo che
Penelope non aspetta
al di là del mare,
e nient’altro
che mare
c’è.