Poiché Gabriella Pace ha in sé il dono di essere un poeta, la poesia prese corpo in lei – molto tempo fa – per alcuni versi suggeriti dal padre. Io rimasi colpito da quell’uomo seduto su una poltrona, che cercava le parole per «dire a noi / tuoi figli / l’amore che ci porti», e molte altre cose solo scorte. A raccontare ora è la figlia: con una matita di sanguigna – lieve nel tono che la distingue. Essere poeti è per sempre. Ci sono voluti anni lunghi una vita perché potesse emergere il lume di questo “Ritorno”. Il ritorno ha in sé qui una dura partenza: per Zwickau, su vagoni da bestiame dove furono caricati molti nostri soldati, contati come “internati”. Perché tutto non restasse imprigionato nelle ance del silenzio, ecco un poeta prestare voce e canto al padre (l’aria rideva tutta, / brinata, si scioglieva. / Pensavo: / –Non siete mie nemiche –), alla madre del giovane (io sono sorda e cieca / una pietra / una foglia secca / allieva dell’autunno), a sé stessa figlia “con amore che non riposa”. «Non è la prima né l’ultima / è guerra tra le guerre», la terribilità che ribolle. Ha il ritmo di un cuore doloroso questo libro. Gabriella lo ha tenuto dentro, tanto si sono affinati la chiarezza dello sguardo, la misura, la tessitura del suo scrivere. È la sua un’opera di consegna, assai rastremata, dove a parlare è la stessa poesia con una consonanza assoluta tra le voci. Dietro, in filigrana, l’impronta asciutta semplice di un’ara.
Domenico Adriano
Le voci del ritorno
Tre voci compongono un itinerario che lega un breve lasso di anni, quelli che vanno dal ‘40 al ‘45, a un ingresso nella vita adulta segnato dalle prove drammatiche della guerra e della prigionia. Si alternano, in questa costruzione poematica, prendendosi di volta in volta le luci della scena, un aedo, al corrente delle vicende narrate e forse del loro più intimo significato, il protagonista stesso, ad imprimere una svolta drammatica alla storia e per finire la madre di questi, con forti accenti lirici da antica lauda (“Figlio mio bello / unico mio figlio / ché l’altro se n’è andato…”)
Grazie a un verso piano, vicino a tratti alla prosa, di mirabile nitore ed eleganza, seguiamo le vicende di un giovane militare che si imbarca per la Grecia, che tornerà a casa per una licenza e finirà poi prigioniero, presumibilmente nel settembre del ‘43 con indosso ancora la divisa estiva, nel campo di concentramento di Zwickau, nella Sassonia un tempo terra di cultura e ora di detenzione e di morte. Il tema della fame e del freddo, del lavoro manuale svolto in condizioni di schiavitù che ricorre nella memorialistica di quegli anni (si veda ad esempio il bellissimo Campo degli ufficiali di Giampiero Carocci) è qui tratteggiato per pochi accenni, per dettagli che rivelano (la “montagna di carbone” affrontata dal basso, perché così spalarla costa meno fatica; il ghiaccio della pozzanghera che serve per radersi e conservare malgrado tutto un aspetto civile…).
E tuttavia il buio dato anche da un cielo basso e senza illusioni sarà infranto da un sorriso femminile, una giovane donna che sfidando le leggi orrende della guerra darà del pane al prigioniero, passato nel frattempo a lavorare nell’infermeria del campo. L’idillio che ne discende (e il ricordo qui va a una toccante sequenza della Grande Illusion di Jean Renoir) è pure adombrato in pochi tratti, così come il momento della separazione nella primavera del ‘45, quando un metaforico disgelo (“I primi germogli sbocciati / e i tetti ancora bagnati / dalla neve disciolta”) apre la via del ritorno, con tutte le sue incognite. È possibile infatti che “nessuno crederà / al nostro racconto”, quanto dimora negli incubi di chi è sopravvissuto, mentre una profonda ferita è destinata a rimanere indelebile (“Però c’è un muro / oltre il muro reale / che divide gli spazi / dentro il mio corpo / e nell’anima”). E questo mentre la vita ricomincia, nella gioia del ritrovare i luoghi e gli affetti, dei nuovi incontri e i progetti (“ci sarà il sole in tutte le stanze”), di un viaggio di nozze compreso nell’azzurro del Golfo e dei vicoli di Napoli.
Va aggiunto che l’aedo che tira le fila della storia è la figlia stessa del prigioniero, e la sua voce, nel ricorrere al tu rivolto al padre giovane, si colora di una pietas che caratterizza l’intero racconto, accompagna il trascorrere del tempo e ne riflette quanto al di là di esso è destinato a durare.
Marco Vitale
La nave
sarebbe partita il giorno dopo
dal porto di Napoli.
Ti chiese di rimanere
non implorò, non pianse
tutte le lacrime ormai consumate.
– Mi vuoi disertore? –
Impetuosi vent’anni ti scoprirono i denti
la gola tesa prima del balzo
in attesa di cadere nel vuoto,
il tuo fu un giro di perlustrazione.
Non attraversasti quel mare
almeno non ancora.
L’indomani si seppe,
era stata affondata.
Non ti trattenne oltre tua madre
ti piantò addosso gli occhi grigi di ghiaccio
ricomprese in uno sguardo
la tua figura esile, di ragazzo affamato
non disse mai che lo aveva sognato.
Sulla nave al ritorno
hai comprato una collanina
coralli frastagliati
rossi come la piena del sangue
sgorgata da tutti i morti
che voglio dimenticare
mi chiedi di aiutarti ad allacciarla
intorno al collo come un amuleto
ed io abbandono i loro cari nomi
uno a uno nell’onda, negli occhi saraceni
del bambino che te l’ha venduta
nell’allegria cristallina
che t’illumina tutta.
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