Dodici poesie, scritte tra il 14 e il 25 settembre 1924, sono il lascito di Enrico Fracassi, poeta romano ventiduenne, che nel novembre di quello stesso anno si tolse la vita. Fatte conoscere da Falqui, che le pubblicò nel 1948 con Scheiwiller, ammirate da Ungaretti, antologizzate da Anceschi e Spagnoletti, le poesie di Fracassi arrivano fino a noi in una miracolosa incolumità. È certo l’intelligenza estetica di un giovane ossessionato dalla mutevolezza, lettore fervido di Catullo e Virgilio, che le svincola dall’epoca, dalla biografia e ce le consegna come sono: antiche e contemporanee; ma il loro durevole splendore non deve meno a quel potere incalcolabile che scampa dalla morte tutto ciò che, come questi idilli tragici, ha profonda intimità con la morte.
Con tre illustrazioni
da Passione e oblio
5
Giallo, livido sopra Monte Velino s’inalza
il disco che illumina l’aia.
Ma l’aia non suona di grida.
Non ci siamo stati che noi, bambini?
In una sera come questa,
ora sono dieci o dodici anni
t’ho strette le mani giocando,
fra il pagliaio ove siedi e la casa,
scotendomi la febbre le vene.
Certo, non ricordi. Che vuoi?
Da quella sera, la luna – tante volte s’è rinnovata,
e la tua bocca, come la luna – anch’essa s’è rinnovata.