Ecco un piccolo libro eccessivo, ossessivo, ipnotico – il libro di un manierista e di un miniaturista, che concentra in un solo fiore, il papavero, dilatato a misura di mondo, una folla di simboli per dire l’infanzia, l’amore, il sesso, la perdita e la disperazione, così ricavandone una sua redentrice delizia, poiché questo fiore distilla, con il suo carico vagheggiato di ricordi e d’immagini, un succo riparatore e smemorante nella mente del poeta: è un addormentadolore.
Il fiore che fu caro a Keats, a Govoni – non per caso posti, in limine, a tutela di questo speciale giardino, monocromatico, incantato –, è qui trattato da Adriano con la minuzia elencatoria del Cantico dei Cantici fino a farlo sbocciare – magnifico paradosso floreale e poetico –, nell’immaginazione del lettore, con le dimensioni, mostruose e magnetiche, di un fiore tropicale.
Con sei disegni di Giuseppe Salvatori
da Papaveri perversi
O rossi papaveri che la mia bambina
scoprì su uno scoglio al grido bianco
di un cigno: siete spuntati una mattina
come il sole dal becco di un uccello.
Papaveri papaveri miei persi
a voi non servono vestiti o versi!
Sale sale fino a farvi belli
il vento che rivolta i vostri ombrelli.
Domenico Adriano, Papaveri perversi
di Francesco Dalessandro
Ci sono poeti che scrivono poco e che ritoccano di continuo i pochi versi che producono; che se hanno dubbi non si vergognano di chiedere consigli ad altri poeti amici; che i versi finalmente finiti lasciano a riposare, come un buon vino, in qualche angolo fuori mano della scrivania. Domenico Adriano è questo tipo di poeta. Lavora lontano dai clamori, senza fretta, con pazienza, attenzione, competenza e bravura: lo dimostrano i quattro – solo quattro! – libri che ha pubblicato in un arco di quarant’anni. In tutto, un centinaio o poco più di poesie che, facendo la media, dà meno di 3 all’anno (Caproni, per esempio, rivelò un giorno, a Francesco Tentori e a me, che la sua media era di sette poesie all’anno).
Domenico Adriano fa una poesia nutrita di fatti e di emozioni; egli lavora con le cose, le piccole e le grandi, con le semplici ma forti emozioni che fanno la vita di un uomo, i sentimenti che lo abitano e lo fanno vivere, che siano dolore o affanno, sofferenza o pena, oppure il desiderio e, bene vivo e intenso, l’amore: per sua figlia, come nel precedente libro, il toccante Bambina mattina; o per la sua donna, come in questo Papaveri perversi, piccolo libro luminoso di senso e di sensi che raccomando di leggere gustandone quartina dopo quartina come si gusterebbe la pietanza più saporosa, a cominciare dalla poesia bellissima che fa da proemio.
Leggiamola, quella prima poesia: Forse perché dentro di me / avevo deciso un tuo ritratto, / eccoli nei prati del pensiero / mille e più mille papaveri rossi. // Sotto il cielo di tanta bellezza / sono quasi cieco, ma vedo / meglio adesso, si tratta infine solo / di affinare, come in poesia, l’arte // di togliere, lasciandosi guidare / da ogni fiore se dentro ognuno / di loro c’è già la tua figura, / semplice e perfetta come il fuoco.
Leggiamola bene, perché può rivelarci qualcosa sulla poesia di Adriano; o, almeno, sul suo metodo. Cos’è, per lui, la poesia? L’arte del togliere, l’arte di affinare col fuoco, di temperare il verso affinché corrisponda a quello che, fin da subito, si sente necessario. La poesia è come il fuoco al quale somiglia la figura amata, come l’amore e i papaveri che la racchiudono, «semplice e perfetta» quanto e più di quella reale; semplice perché essenziale; perfetta perché ideale, aderente al ritratto già deciso dentro di sé, come lo sono i papaveri «nei prati del pensiero». Insomma, non è tanto la realtà in sé a dare corpo alla poesia, quanto il suo ideale riflesso, che se acceca, fa però vedere meglio, fa vedere più chiaro.
A seguire, è la musica dei versi che conquista, è la freschezza delle metafore e delle immagini, che brillano e riempiono gli occhi; è il suono delle frequenti ripetizioni che catturano l’attenzione, e al lettore sembra di scivolare in una specie d’incanto, nel torpore visionario e smemorante che proprio il papavero induce: verso dopo verso, quartina dopo quartina, fino all’ultima, nella quale il poeta sembra riconoscere l’inutilità della sua impresa: Papaveri, papaveri miei persi / a voi non servono vestiti o versi, perché quei fiori – belli come l’amore crudele di cui, forse, sono l’emblema – non hanno bisogno di parole: Sale sale fino a farvi belli / il vento che rivolta i vostri ombrelli. Ma il poeta sì, perché tramite le parole – lo abbiamo visto – riconosce il senso della propria storia, si riappropria della vita.
Ai versi di Adriano si aggiungono i bellissimi disegni di Giuseppe Salvatori che arricchiscono il libro di ulteriore finezza ed eleganza.
«Pagine», XIX, 57, dicembre 2008 - marzo 2009
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