Categoria: Arsenale
Pagine: 104
Prezzo: € 12,00
ISBN: 9788889299326
Anno: 2005

Amletico e falotico: si potrebbe provare a definire così l’umore e il tono dei versi di Michele Colafato; senza impedirsi di notare che i due aggettivi uniti formano l’anagramma quasi perfetto del nome dell’autore: un gioco, uno scherzo d’alfabeto.
Amletico, per l’almanaccare drammatico, coinvolto oltre la morte con la figura del padre, per le fiere o miti ironie, e per certe fitte sarcastiche che l’autore non risparmia neppure a se stesso; falotico, per quella vena di bizzarria che attraversa l’intera opera, e prilla e sprizza sulle pagine in misurate acrobazie, conferendo alla sua poesia tratti di lucida stravaganza.
Se l’anagramma non è che una bizzarra coincidenza, e non verrà addotto come prova decisiva, «giocare» con le lettere tuttavia non è qui improprio. Colafato lo fa con la devozione del cabalista, nascosta a volte sotto l’irriverenza del cabarettista, disponendo tele e reti delle lettere per le sue catture. Quello che il poeta vuole catturare sono le forme molteplici di un io in evanescenza – un gioco da acchiappavento, alla Arnaut Daniel, con la consapevolezza della vanità di una tale impresa e, a un tempo, la fiducia che da quella mobile energia inafferrabile fermata sulla carta si delinei, tra resti consumati e mirabili scoperte, una immagine in cui riconoscersi.
Per il lettore l’immagine è quella di un poeta insolito, non estraneo al suo tempo, ma con un affabulare elusivo, un po’ sul beffardo e sul farnetico, una voce «a parte», capace di modulare sprezzo e pietas, carità e sarcasmo, a fior di labbra, in un suo tono speciale.


da Mutuazioni e sconnivenze


Caronte

Il camion ha tagliato il traguardo
sotto casa e si è fermato quando
sono uscito per l’immondizia.
L’autista in canottiera
piuttosto nervoso e mingherlino
si guardava intorno e fumava
per accertarsi di essere nel giusto
perché non c’era mai venuto
prima di spegnere il motore e la luce
in cabina.

Alla mattina quando
da tre ore il tuo ultimo fiato
era volato lo rivedo mentre
la sigaretta accesa gesticola
in sequenza scandita. Infine
guardata la bolla di consegna
la infila nel cruscotto toglie il freno
e fila via.

Sono venuti a prenderti
avevo pensato la sera prima.


Recensioni

Michele Colafato, Da una vena unica

di Francesco Dalessandro

«Pagine», Anno XX numero 61, aprile – luglio 2010

Tutte le straripanti bellezze / del mondo che hai attraversato / [...] / Tutte le bellezze del mondo / perché tu possa adesso passo / dopo passo vedere te stesso. È Il cavaliere polacco, la prima poesia del libro di Michele Colafato Da una vena unica; un libro di quindici poesie, ma denso, di sostanza. Nella breve, asciutta e antilirica descrizione del cavaliere (chiaro è il riferimento al celebre quadro di Rembrandt): il fustagno rosso dei pantaloni, il frustino, il berretto di pelliccia, la lunga casacca, lo sguardo alto, e l’andatura del cavallo attraverso “le straripanti bellezze del mondo”, elementi essenziali, più di un carattere che di un atteggiamento, circoscritti in un tempo e un luogo precisi, eppure misteriosi come l’attesa; nella descrizione del cavaliere, dicevo, si trovano già dispiegati i motivi della poesia di Colafato: riflessione, autoironia, conoscenza del mondo, introspezione affilata; una poesia che ferisce, ma che, come si legge nel risvolto editoriale, ha “in sé poteri lenitivi”. Alla fine della lettura mi sono detto che un libro di quindici testi può dare da solo l’idea precisa di un autore. Perché anche chi non conosca il precedente, corposo libro di Colafato, Mutuazioni e sconnivenze, uscito nel 2005 per le stesse edizioni, si renderà conto di avere di fronte un vero poeta. Un poeta d’età matura (che abbia iniziato tardi a scrivere, o, più semplicemente, che tardi abbia pubblicato, importa poco), un poeta sicuro e responsabile, con una voce che non mostra incrinature e nemmeno esibisce falsetti o deliqui, e che perciò si ha voglia di continuare ad ascoltare. Non ci sono orpelli nella sua scrittura, non ci sono ammiccamenti, né allusioni o illusioni, tutto è sentito e sperimentato, concretamente. Ogni poesia, per solito breve, è il frutto dello sguardo del poeta che scruta nel profondo della propria coscienza (come lo sguardo del cavaliere di Rembrandt che, fisso “tra la sfida e il fantasticare”, così è stato scritto, spazia lontano, attraverso il crepuscolo), inteso allo svelamento e alla rivelazione di sé; si legga Radiocronache per farsene un’idea (e quel finale, non si saprebbe dire se più consapevole o impietoso: […] Piuttosto anelava / soffrendo a una goccia di silenzio / il mio cuore indurito), o la più lunga e densa Il sabato. Di queste poesie si apprezza la musica severa (composta, si potrebbe pensare, per strumenti dal tono profondo: contrabbasso o corno inglese); decisa la loro cadenza. Leggiamo ancora: Saranno forse come lampi intermittenti / nelle sere d’estate dopo il grande caldo / le preghiere interminate che inizi / e non finisci e illuminano per un istante / l’orizzonte oscuro del tuo compleanno. / Forse anche tu ti chiedi: che sono? che fanno? / che cosa annunciano nel buio questi lampi? Insomma, qui Calafato esibisce chiarezza unita a sicurezza d’intenti. Solo questa fiducia nei propri mezzi permette, per esempio, di scrivere “ti amo” tre volte di seguito in un verso, nella bella Il papiro e il piviere; o una poesia, fra le più compiute, come La notte della vigilia, una breve scena notturna – così la leggo – di lindore e commossa bellezza, pochi versi che spalmano l’unguento lenitivo della tenerezza sui lividi di un pensiero appena riconciliato con se stesso e che qui, sembra, trova requie: La notte della vigilia / è la notte della tenerezza / per te stesso. Ti affacci / alla finestra e guardi la luna / con rispetto e con dolcezza, / poi indugi con lo sguardo / sulla terra. Non sei in alto / né in basso, non hai divi / né diavoli intorno. / È il tuo mondo, dove tu resti, / uomo tra gli uomini, in mezzo.

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