«Devo citare quale occasione, accidentale ma decisiva, per la nascita di questo libro il catalogo di una mostra, Les Vanitées dans la peinture au XVII siècle (Caen, luglio-ottobre 1990), che ho avuto per la prima volta sott’occhio nel maggio 1991. Credo che non poche poesie che ho scritto in passato potrebbero bene accordarsi con queste qui raccolte; ma l’idea e il desiderio di fare un libro interamente ispirato alla vanitas si sono accesi a quei colori, hanno preso forma da quelle immagini. Che sono i colori e le immagini di Valdés Leal, Kalf, de Heem...».
Così scrive l’autore nella Postilla. Corollari delle vanità sono gli inferni, le Furie, gli addii, fino alle virtù e alle preghiere, in cui è diviso tematicamente il libro: insomma, Palmery ha fatto del repertorio umano, visto e vissuto attraverso le sue ossessioni, angosce e sarcasmi, un catalogo. E se il libro è il catalogo vorrà dire che la vita è la mostra, nella sua mortale ripetibilità… Ogni pensiero sul niente tuttavia porta con sé l’ironia della sua esistenza, ogni memento mori è un tributo alla vita: così, il fulgore della forma si riverbera, nel Giardino di delizie, sul niente che la insidia, come negli artifici della natura o, appunto, nelle tele secentesche, dove teschi e mosche, grappoli e coppe partecipano della stessa vitale radiosità.
da Giardino di delizie e altre vanità
Natura morta con ramo di quercia
Una reliquia del cielo, stillante
celesti acque: per questo lo abbiamo
sollevato da terra, troncato ramo
ai piedi della quercia, dopo il rapido
uragano, uscendo dalle calde stanze:
folto di foglie fradice e domani
inaridite o marcite, ora sul tavolo
il nocchiuto tralcio luccica tra altri
fatui splendori recisi da mani
umane: anemoni, viole, narcisi,
nasturzi: tagli di terra e cielo qui
riuniti per decorarci e dire – che cosa?
Una quercia ha perduto un ramo; un ragno
l’ombra, il riparo, cui non sa ancora
rinunciare e corre come impazzito ancora
ricorre a quella maceria che non ha
più vita propria – ma non è solo materia
che marcirà: lustro trofeo e contorta
corona ai caduti e a se stesso: docile
modello per questa natura morta.
LE VANITÀ DI PALMERY
di Edoardo Albinati
da «Pagine»
[...] Come Milton, Palmery è un poeta di scintille e fumo. Difficile scaldarsi alla sua poesia, nervina e capricciosa proprio quando parrebbe consigliare al suo lettore i montaigneschi sollievi della pazienza, i sorrisi di una luciferina rassegnazione; inutile cioè trattenersi accanto ad essa sperando di assorbirne il calore, poiché per sua natura la poesia di Palmery lampeggia, sfrigola, fumiga, scoppietta, come il tizzo in Inferno, XIII, o appunto come accade nelle pirotecnie più mentali che ottiche del poema miltoniano. [...]
GIARDINO DI DELIZIE E ALTRE VANITÀ
di Luigi Fontanella
da «Gradiva»
[...] Poesia pertanto speculare, delle «macerie», questa di Palmery, ma sono proprio esse a costituire – come viste dall’alto, in un unico, conglomerante abbraccio visivo – il Giardino di Delizie in cui (di cui) il poeta è chiamato a dare testimonianza con la sua parola essenziale e sontuosa, e con la sua vita esperita e sentita non altrimenti che come «lenta morte». Dunque poesia estrema (e in estremo), a petto della quale il rischio è l’afasia, o, per contro, appunto, il più sfrenato barocchismo d’accumulo, nel quale l’Opera può risultare un Gioiello Stellare e al contempo Vanità Totale. [...]
GIARDINO DI DELIZIE E ALTRE VANITÀ
di Fabrizio Patriarca
da «Pseudolo»
[...] Questo giardino di delizie di Palmery è infine un giardino in cui è quasi impossibile entrare. Più che conchiuso, esso è precluso. Ed anche penetrandovi, non è possibile respirare. In breve: è il giardino perfetto.
Qualcuno però, ne ha da tempo chiarito il segreto: questo giardino è un teatro, e il suo inventore va posto a buon diritto, assieme a Sade, Fourier e Loyola, tra i «logoteti». Così Roland Barthes definiva i fondatori di lingue. [...]
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