Dicono di strappi e di ferite i nuovi versi di Colafato, portando tuttavia in sé poteri lenitivi; se evocano piaghe di prigionia, annunciano, sia pure amare, raggiunte liberazioni: «sulle serrature e le ferite» si distendono le unzioni della poesia. Una poesia che si è andata affinando nell’uso di semitoni e staccati, con una vocalità a tratti vibrante, sempre essenziale: di pagina in pagina, tra ironie e agnizioni, si sente battere il suo cuore segreto, suo motore e sua mira: il silenzio.
Per questo può contenersi e contenere, con ferma intensità, temi e moti contrapposti: la pena e la quiete, la lotta e la pacificazione, e perfino una sospirata gioia o almeno la «calma della mente», miltonicamente o buddicamente o cristicamente: tutto prende, scorre e si nutre «da una vena unica».
Con tre disegni di Ruggero Savinio
da Una vena unica
Il cavaliere polacco
Tutte le straripanti bellezze
del mondo che hai attraversato
in diagonale parafrasando
con decisi trasferimenti di accento
o cenni del capo,
il frustino poggiato sopra
i calzoni di fustagno scarlatto
il berretto di pelliccia rovesciato
la lunga casacca orientale
aperta sull’ambio e lo sguardo alto.
Tutte le bellezze del mondo
perché tu possa adesso passo
dopo passo vedere te stesso.
Michele Colafato, Da una vena unica
di Francesco Dalessandro
Tutte le straripanti bellezze / del mondo che hai attraversato / [...] / Tutte le bellezze del mondo / perché tu possa adesso passo / dopo passo vedere te stesso. È Il cavaliere polacco, la prima poesia del libro di Michele Colafato Da una vena unica; un libro di quindici poesie, ma denso, di sostanza. Nella breve, asciutta e antilirica descrizione del cavaliere (chiaro è il riferimento al celebre quadro di Rembrandt): il fustagno rosso dei pantaloni, il frustino, il berretto di pelliccia, la lunga casacca, lo sguardo alto, e l’andatura del cavallo attraverso “le straripanti bellezze del mondo”, elementi essenziali, più di un carattere che di un atteggiamento, circoscritti in un tempo e un luogo precisi, eppure misteriosi come l’attesa; nella descrizione del cavaliere, dicevo, si trovano già dispiegati i motivi della poesia di Colafato: riflessione, autoironia, conoscenza del mondo, introspezione affilata; una poesia che ferisce, ma che, come si legge nel risvolto editoriale, ha “in sé poteri lenitivi”. Alla fine della lettura mi sono detto che un libro di quindici testi può dare da solo l’idea precisa di un autore. Perché anche chi non conosca il precedente, corposo libro di Colafato, Mutuazioni e sconnivenze, uscito nel 2005 per le stesse edizioni, si renderà conto di avere di fronte un vero poeta. Un poeta d’età matura (che abbia iniziato tardi a scrivere, o, più semplicemente, che tardi abbia pubblicato, importa poco), un poeta sicuro e responsabile, con una voce che non mostra incrinature e nemmeno esibisce falsetti o deliqui, e che perciò si ha voglia di continuare ad ascoltare. Non ci sono orpelli nella sua scrittura, non ci sono ammiccamenti, né allusioni o illusioni, tutto è sentito e sperimentato, concretamente. Ogni poesia, per solito breve, è il frutto dello sguardo del poeta che scruta nel profondo della propria coscienza (come lo sguardo del cavaliere di Rembrandt che, fisso “tra la sfida e il fantasticare”, così è stato scritto, spazia lontano, attraverso il crepuscolo), inteso allo svelamento e alla rivelazione di sé; si legga Radiocronache per farsene un’idea (e quel finale, non si saprebbe dire se più consapevole o impietoso: […] Piuttosto anelava / soffrendo a una goccia di silenzio / il mio cuore indurito), o la più lunga e densa Il sabato. Di queste poesie si apprezza la musica severa (composta, si potrebbe pensare, per strumenti dal tono profondo: contrabbasso o corno inglese); decisa la loro cadenza. Leggiamo ancora: Saranno forse come lampi intermittenti / nelle sere d’estate dopo il grande caldo / le preghiere interminate che inizi / e non finisci e illuminano per un istante / l’orizzonte oscuro del tuo compleanno. / Forse anche tu ti chiedi: che sono? che fanno? / che cosa annunciano nel buio questi lampi? Insomma, qui Calafato esibisce chiarezza unita a sicurezza d’intenti. Solo questa fiducia nei propri mezzi permette, per esempio, di scrivere “ti amo” tre volte di seguito in un verso, nella bella Il papiro e il piviere; o una poesia, fra le più compiute, come La notte della vigilia, una breve scena notturna – così la leggo – di lindore e commossa bellezza, pochi versi che spalmano l’unguento lenitivo della tenerezza sui lividi di un pensiero appena riconciliato con se stesso e che qui, sembra, trova requie: La notte della vigilia / è la notte della tenerezza / per te stesso. Ti affacci / alla finestra e guardi la luna / con rispetto e con dolcezza, / poi indugi con lo sguardo / sulla terra. Non sei in alto / né in basso, non hai divi / né diavoli intorno. / È il tuo mondo, dove tu resti, / uomo tra gli uomini, in mezzo.
«Pagine», XX, 61, aprile-luglio 2010
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